IN RICORDO DI ROBERTO FRANCESCHI: “RAGAZZO COME GLI ALTRI” CADUTO PER UNA “NUOVA RESISTENZA”.

Il 22 gennaio Roberto Franceschi, studente del secondo anno di Economia politica dell’università Bocconi, compila il modulo di richiesta per un’assemblea. “Il sottoscritto, Roberto Franceschi, chiede l’agibilità di un’aula nella serata del giorno 23-I-1973 a scopo di dibattito con gli studenti dell’Università Bocconi”. La sera del 23 si presenta tranquillamente all’università. Sa che le assemblee sono aperte anche agli studenti delle altre università cittadine, agli studenti-lavoratori e a personalità della cultura o della politica secondo gli argomenti trattati; sa che gli studenti nella loro richiesta scritta per l’uso dell’aula devono dichiarare che si impegnano a non far partecipare estranei. Ma s’intende che, nel caso. se ne assumono la responsabilità. Così è sempre stato, per un tacito patto con il Rettore, basato sulla parola e la reciproca fiducia. Ma quella sera è diverso. Per la prima volta, il Rettore ordina il controllo dei tesserini all’ingresso, il che significa vietare la partecipazione ai numerosi giovani che, ignari, già si sono affollati. Non è mai accaduto. E a far valere il divieto sono schierati in assetto di guerra ben cento poliziotti del Terzo Raggruppamento Celere all’angolo tra via Sarfatti e via Bocconi, fra pensionato studentesco e ateneo. Gli studenti sono increduli perché non c’è nessun pericolo imminente che possa giustificare questa massiccia presenza. Chi ha richiesto l’intervento della forza pubblica? L’Università Bocconi è rimasta l’ultimo ateneo di Milano in cui l’agibilità politica è di fatto garantita. Fino a quella sera.

C’è inquietudine e fermento. Si fanno telefonate al Rettore, alle autorità, si parla con il vicequestore Paolella presente. Tutti si trincerano dietro a “ordini superiori”. Niente da fare. Quella sera per entrare bisogna esibire i tesserini – che fra l’altro molti degli iscritti non hanno nemmeno portato con sé. Si ha la percezione di una provocazione. Alla fine Roberto Franceschi e gli altri dirigenti degli studenti decidono di comunicare che l’assemblea è rinviata. Sono le 22,30. Gli studenti abbandonano l’ateneo e cominciano ad allontanarsi a piedi. Il bidello, dopo una ricognizione all’interno, spegne le luci dell’atrio e chiude il portone. Dall’altra parte della strada, sono sempre fermi i plotoni dei poliziotti. Ma all’esterno si erano radunati almeno duecento giovani, studenti della Bocconi, dell’Università statale e di altri istituti cittadini, operai. Tutto accade all’improvviso, in pochi minuti. Fra i poliziotti e qualcuno dei giovani c’è un contatto. La reazione della polizia è fuori da ogni ragionevole controllo. Gli agenti con caschi, scudi e manganelli rincorrono i giovani spostandosi rapidamente da via Sarfatti fin dentro a via Bocconi. I ragazzi fuggono voltando le spalle ai poliziotti. Ma ad un tratto si sentono chiari e forti gli spari delle pistole in dotazione alle forze dell’ordine. Il rumore è assordante e riconoscibile. Uno, due, tre, dieci, almeno quindici colpi di Beretta calibro 7,65, alcuni ad altezza d’uomo. Roberto Franceschi viene centrato alla nuca e cade a terra. Poco accanto, viene ferito alla schiena Roberto Piacentini, operaio della Cinmeccanica. Roberto Franceschi è soccorso da quattro compagni e trascinato nell’atrio del pensionato. Perde molto sangue. Un medico e uno studente gli praticano il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Poi chiamano l’ambulanza. ma le sue condizioni restano gravissime.

​Nelle ore in cui Roberto Franceschi lotta in ospedale tra la vita e la morte, gravi depistaggi delle indagini avvengono in silenzio e nella totale impunità. Funzionari di pubblica sicurezza sottraggono alla magistratura inquirente prove importanti come decine di bossoli ritrovati in via Bocconi, manipolano caricatori e cartucce dei colleghi coinvolti nella sparatoria, modificano le loro testimonianze e le adattano nel corso del tempo ai risultati dell’istruttoria.

I genitori e la sorella di Roberto all’una di notte ricevono un telefonata che invita a recarsi al Policlinico. Fanno in tempo a incrociare la barella che porta Roberto in sala rianimazione. Il mattino del 24 gennaio i medici constatarono che il giovane non è operabile e che è entrato in coma profondo. Il coma durerà una settimana.

La mattina dopo i fatti, si riunisce a Roma la Camera dei deputati, con il tema “Svolgimento di interrogazioni urgenti sugli incidenti all’Università Bocconi di Milano”. Il racconto dei funzionari di polizia milanesi, Ferruccio Allitto Bonanno e Tommaso Paolella, suffragato dal capo della Polizia Angelo Vicari, deve essere ora confermato dal ministro dell’Interno Mariano Rumor per conto del Governo guidato da Giulio Andreotti. La versione ufficiale è: «Già quasi tutto il reparto aveva preso posto sugli automezzi quando dal Pensionato sono uscite circa 100 persone, armate di spranghe di ferro e chiavi inglesi, le quali hanno aggredito con estrema violenza una ventina di guardie rimaste ancora appiedate insieme all’ufficiale del reparto, scagliando anche cubetti di porfido e bottiglie incendiarie. Un cubo di porfido colpiva alla testa il comandante del reparto, tenente Addante, il quale, ricoverato in gravi condizioni al Policlinico perderà probabilmente l’occhio sinistro. Una bottiglia incendiaria colpiva la camionetta del tenente, il cui tetto prendeva fuoco. L’autista del veicolo rimaneva ustionato e scendeva dal mezzo con i copricapo in fiamme. Impressionato dalle gravi ferite riportate dal suo superiore caduto a terra insanguinato, in preda a choc, sparava alcuni colpi di pistola all’indirizzo degli aggressori. Anche un sottufficiale sparava alcuni colpi in aria a scopo intimidatorio per liberarsi della stretta in cui era venuto a trovarsi: accortosi quindi che l’autista del tenente ferito era visibilmente sconvolto, provvedeva a disarmarlo. La forza pubblica lanciava anche alcuni lacrimogeni al fine di disperdere i dimostranti”. Il ministro dell’Interno Mariano Rumor si sofferma a lungo nella descrizione dell’attacco del gruppo di studenti per giustificare l’utilizzo di armi da fuoco da parte della polizia. E offre già una pista investigativa alla magistratura inquirente: legittima difesa, non omicidio. Solo alla fine del suo racconto, Rumor si ricorda che due giovani sono stati colpiti dalle rivoltelle dalla polizia: “Il bilancio dell’incidente è purtroppo molto grave. Secondo quanto risulta fino a questo momento, i proiettili esplosi dalla guardia autista hanno colpito uno studente, Roberto Franceschi, e un operaio meccanico, Roberto Piacentini. Il giovane Franceschi è ricoverato al policlinico e versa purtroppo in imminente pericolo di vita”. L’intervento del Ministro dell’Interno si conclude con la difesa delle forze di polizia: “Quando una giovane vita rischia di spegnersi, in circostanze così tragiche, o ne è vulnerata, il nostro comune sentire di uomini è sopraffatto dall’angoscia. Questo sentimento avverto ed esprimo come responsabile del ministero dell’Interno, che ha propria divisa la tutela della convivenza pacifica tra cittadini. L’intervento delle forze di pubblica sicurezza è sempre stato ispirato da queste esplicite direttive e da questi precisi intendimenti. In ogni circostanza, anche nelle più difficili, il comportamento degli agenti e dei responsabili delle forze dell’ordine è stato all’altezza del loro compito”.

Il dibattito parlamentare si surriscalda fin da subito. Il socialista Riccardo Lombardi interviene dicendo: “Assistiamo ad una dichiarazione del Questore il quale dice che un agente di pubblica sicurezza ha sparato due colpi in un momento di panico. Ha sparato due colpi: mirabile precisione intenzionale di tiro. Due colpi, tutti e due andati a segno. Le pare che sia normale? Le pare che un agente, sia pure colto da raptus, da un momento di panico, come primo istinto, non debba avere quello di sparare in aria? Ha proprio bisogno di colpire alla nuca una delle vittime a alla scapola l’altra? E cioè, presumibilmente, due manifestanti che erano in ritirata, e non stavano per compiere una aggressione, e tanto meno una aggressione frontale? Se mai si è trattato di un intervento inspiegabile e ingiustificabile, se non con la preconcetta intenzione di caccia all’uomo”. A queste domande legittime il ministro Mariano Rumor non fornisce risposte. Il dibattito continua, ma nessuna spiegazione plausibile viene data da parte del Governo sulla dinamica dei fatti avvenuti davanti alla Bocconi: perché la sera del 23 gennaio 1973 i poliziotti che impugnano le rivoltelle e sparano contro gli studenti sono molti di più dei due indicati in via ufficiale.

Martedì 30 gennaio 1973, una settimana esatta dalla sparatoria, Roberto Franceschi ha il terzo arresto cardiaco. L’agenzia giornalistica Ansa alle ore 16,07 diffonde la notizia attraverso le telescriventi: “Lo studente della Bocconi Roberto Franceschi è deceduto alle ore 15,25”.

Il 3 febbraio si svolgono a Milano i funerali, seguiti da migliaia di persone arrivate dalle scuole, dalle fabbriche, dalle città dell’hinterland, in un silenzio assoluto. Dopo i genitori, la sorella, gli amici più intimi, c’è il sindaco Aldo Aniasi, rappresentanti delle segreterie del PCI e del PSI, i dirigenti del Movimento Studentesco, esponenti delle organizzazioni sindacali, dei consigli di fabbrica e di numerose sezioni di partito e associazioni. In piazza Santo Stefano, a pochi passi dall’Università Statale, il feretro si ferma. Uno studente ricorda l’impegno politico di Roberto Franceschi: “un esempio per tutti coloro che lottano per la democrazia e per il socialismo”. La corona inviata dal presidente della Camera Pertini viene adagiata nella piazza. Poi gli studenti intonano l’Internazionale salutando con il pugno chiuso.

Roberto Franceschi durante un corteo

In quegli anni in diverse città sorgono, attorno al Movimento Studentesco, i “Circoli Roberto Franceschi” in cui molti giovani incominciano la loro militanza politica e sociale, sull’esempio di Roberto. Circoli Anpi, come quello di Brugherio, lo ricorderanno insieme alla madre e all’Mls locale. A dimostrazione che i Partigiani sanno sempre da che parte stare in ogni vicenda tragica.

Nel 1977 nel luogo in cui Roberto era caduto in via Bocconi viene posto un monumento, un maglio d’acciaio alto sette metri dal peso di cinquanta tonnellate. Ai piedi dell’opera è posta una targa di bronzo che riporta la scritta: “A Roberto Franceschi e a tutti coloro che nella Nuova Resistenza dal ’45 ad oggi caddero nella lotta per affermare che i mezzi di produzione devono appartenere al proletariato”. Il progetto del monumento era stato lanciato da un gruppo di artisti con un appello che ricordava: “Dal 1945 ad oggi sono stati uccisi in Italia più di 170 proletari durante manifestazioni politiche e sindacali. La Resistenza contro il fascismo e le forze politiche ed economiche che lo sostengono non è finita. I compagni caduti nei momenti di lotta dal ’45 ad oggi devono essere ricordati come nuovi partigiani”. Il maglio è “un simbolo degli strumenti di lavoro espropriati” che “devono appartenere a chi li usa”. Il luogo in cui il monumento è collocato ricorda il “contrasto violento e inusuale fra l’oggetto concreto – simbolo del lavoro, oggi alienato – e l’edificio dell’Università – simbolo della cultura, oggi separata”.

La vita e la morte di Roberto Franceschi trovano qui la loro sintesi. Una “Nuova Resistenza”. Un ideale di lotta, in un orizzonte non solo celebrativo.

La giustizia penale, invece, non verrà mai raggiunta. Si celebrarono diversi processi, protratti per oltre vent’anni. Furono stabilite responsabilità generiche delle forze dell’ordine, ma non si arrivò alla condanna del responsabile dell’assassinio. La sentenza fu confermata in Corte d’Assise d’Appello e successivamente in Cassazione.

La famiglia del giovane, su iniziativa dell’avvocato Marco Ianni, decise quindi di agire in sede civile contro il ministero dell’Interno per il risarcimento del danno, visto che il colpo omicida era partito da uomini delle forze di polizia, a sparare furono almeno in cinque e l’impiego delle armi da fuoco contro i manifestanti era avvenuto in assenza di legittimi presupposti. Alla fine fu stabilita la responsabilità del ministero e un risarcimento finanziario.

La somma venne investita per il sostegno alla Fondazione Roberto Franceschi onlus, che, attraverso studi e ricerche, borse di studio, progetti scolastici, “svolge attività nel settore della ricerca scientifica di particolare interesse sociale principalmente nell’ambito della prevenzione, diagnosi e cura di patologie sociali e forme di emarginazione sociale”.

La madre in un’intervista ricordava così il figlio: “Era un ragazzo cordiale e sorridente, aveva il dono della facilità dello studio e si arrabbiava con quelli che facevano politica e non studiavano. Lui diceva che chi fa politica deve essere molto preparato. Aveva scelto la Bocconi per diventare un economista, era convinto che la politica dipende dall’economia. In seguito ho iniziato a odiare la figura dell’eroe perché per consolarmi hanno iniziato a dirmi che Roberto era un eroe. Roberto non era un eroe! Era un ragazzo come gli altri”.

Noi pensiamo che Roberto fosse davvero un “ragazzo come gli altri”. Ma anche i partigiani della Resistenza erano ragazzi come gli altri, ventenni come lui, studenti come lui, operai come quelli che partecipavano alle assemblee della Bocconi, e quella sera del 1973 si sparò per impedire che ciò avvenisse.

Speriamo che la “Nuova Resistenza” di Roberto Franceschi trovi oggi, nel 2023, le nuove forme per sbocciare ad opera di tanti e tante “ragazzi e ragazze come gli altri”.

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